Ho iniziato a giocare a rugby un mese fa quando, a 43 anni suonati, ho pensato “è giunto il momento di scendere in campo”. Pronti, via! Primo allenamento, primo scatto, strappo all’adduttore. Stop! Pomate a chili e metri di fasciature. Come inizio non c’è male, ma non mi sono demoralizzato.
Due settimane dopo ho ripreso a correre e sono tornato al campo (a tempo di record, a detta del fisioterapista, ma non tenevo più). Allenamento completo, con tanto di partitella con i bravissimi ragazzi della prima squadra. Ruolo trequarti ala. Esperienza bellissima. A un certo punto ho raccolto la palla e ho fatto anche un buon passaggio. Ho sentito l’allenatore gridare “Bravo!”. Manco fossi O’Driscoll.
Il campo era un pantano. Sono finito a terra cinque o sei volte, un paio delle quali mi sono sentito sollevare per poi ritrovarmi con la faccia in una pozzanghera. Maglia e pantaloncini erano fatti di fango. Per fortuna quando sono rientrato a casa mia moglie dormiva.
La mattina seguente i dolori erano (dal basso verso l’alto):
1-caviglia; conseguenza di un appoggio sbagliato del piede.
2-schiena, ma non molto.
3-mano sinistra
4-spalla destra
5-collo, per uno dei voli di cui sopra. Ho battuto sul terreno un po’ troppo violentemente.
6-testa, passato dopo 2 aspirine
7-dolori vari da muscoli dei quali non conoscevo l’esistenza.
A chi, vedendomi claudicante, mi domandava: "Lo rifarai?" Rispondevo: "Anche stasera".
E così è stato. Il rugby è come una bella donna cui è impossibile resistere.
Roberto
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