Jonah Lomu

L’uomo che ha rotto gli schemi

«La maggior parte dei giocatori nella loro vita non indosseranno mai la maglia degli All Blacks e io voglio indossarla di nuovo. I soldi non c’entrano nulla, voglio solo lasciare il rugby alle mie condizioni. Se i medici dicono che dopo un trapianto di rene posso ancora giocare, state certi che giocherò».  (Jonah Lomu)

 

Se vi è capitato di parlare di rugby con qualcuno che ne è completamente a digiuno, avrete di sicuro notato che, prima o poi, l’argomento è arrivato a toccare Jonah Lomu. Questo perché, a poco più di 30 anni, il personaggio in questione è già da tempo una leggenda della palla ovale e perché con la divisa degli All Blacks, Lomu è diventato ciò che Pelè è stato per il Brasile e Michael Jordan per i Bulls. È grazie a lui, alla sua singolarità sportiva, atletica, biografica e al conseguente impatto mediatico, se dalla metà degli anni ’90 al rugby è stato dato spazio in contesti prima poco ricettivi. Quando a vent’anni il suo nome è balzato improvvisamente alla notorietà, tutti hanno cominciato a discutere del suo talento, della eccezionale coesistenza di forza fisica e agilità e di un gigante con lo scatto di un centometrista, che devastava le difese, trascinava avversari o li saltava di slancio.

 

Di etnia Maori, Sione Tali Lomu, ribattezzato però quasi subito con il nome “più inglese” di Jonah, è nato il 12 maggio 1975 a Mangere, un sobborgo fra i più poveri di Auckland, da una famiglia di origini tongane. Lasciati subito papà Semisi e mamma Hepi, è vissuto dai suoi zii in un villaggio nell’arcipelago di Tonga fino all’età di sei anni quando, a causa degli esperimenti nucleari francesi nell’arcipelago, i genitori lo hanno riportato a South Auckland. Lì, però, ha trascorso l’adolescenza in pessimi rapporti con il padre spesso ubriaco. Alla fine degli anni ’80 poi, la rivalità tra tongani e samoani, amicizie da evitare, risse e azioni poco lecite sembravano anticiparne un triste destino. “Non avrei potuto vivere senza rugby: sarei senz’altro morto o finito in galera”. Ha raccontato in una lunga intervista: “i miei genitori, vista la gente che frequentavo a Mangere, mi hanno convinto a dedicarmi allo sport. Temevano che tornassi a casa, un giorno, su una macchina della polizia. D’altra parte, come dare loro torto? Nelle battaglie tra le gang di Auckland qualche parente lo abbiamo perso. Mio zio è stato decapitato e fatto a pezzi in un centro commerciale, un cugino è stato pugnalato per strada. Non ero tanto io a cercare i guai, quanto loro a cercare me. Sono stati quegli incidenti a farmi puntare sul rugby”.

Quindi, per allontanarlo da quel contesto, nel 1989 la madre lo ha iscritto al Wesley college, la scuola più antica della Nuova Zelanda, collegata alla chiesa metodista e nota per la disciplina e per l’attenzione riservata allo sport, in particolare al rugby a 15. È stata la sua fortuna. Un giorno, senza troppa convinzione, ha partecipato ad una gara di salto in alto e l’ha vinta, pur non avendo mai svolto allenamenti specifici e senza alcuna formazione tecnica. Ha scoperto così di avere una predisposizione per l’atletica. È stato allora iscritto alle prove più differenti, 100m, 200m, salto in lungo, alto, nelle gare scolastiche, interscolastiche, provinciali. Vinceva a ripetizione. Gli allenatori di atletica erano convinti di avere tra le mani un futuro eccellente decatleta. Ma le sue prodezze hanno attirato l’attenzione anche oltre l’ambiente dell’atletica. Da lì a pochi mesi Jonah ha conosciuto due persone decisive per il suo futuro. Uno era Chris Grinter, allenatore di successo della squadra di rugby della scuola, che ne ha conquistata la fiducia ed è riuscito a convincerlo a giocare terza linea. L’altro è stato Phil Kingsley Jones, anch’egli con esperienza di allenatore, suo futuro manager.

 

L’esordio in un torneo nazionale di rugby a sette è arrivato nel 1994, con la squadra dei Counties, che ha vinto la prima coppa dopo dieci anni, con Lomu eletto migliore giocatore del torneo. Tra gli spettatori c’era Laurie Mains, allenatore degli All Blacks. Impressionato da quel talento, ha chiesto al suo collega dei Counties di provare a farlo giocare ala, ruolo mai ricoperto prima. L’esperimento è andato bene e subito è giunta la convocazione per un torneo nelle Isole Fiji, in quello successivo di Hong Kong e soprattutto per un trial con gli All Blacks.

Selezionato in maglia nera a soli 19 anni per la partita con la Francia, il 26 giugno 1994 a Christchurch, Jonah ha avuto il numero 11 di ala sinistra. Quella gara però si è risolta in una sconfitta per 22 a 8. Mains ha detto allora di essere cosciente che Lomu avrebbe prima di tutto dovuto adattarsi al ruolo e all’ambiente, ma sapeva di avere a che fare con giocatore dal potenziale enorme. Per lui l’esame decisivo sarebbe stata la Coppa del Mondo in Sudafrica nel 1995.

 

Intanto cominciavano ad arrivargli richieste di ingaggio di altissimo livello. Dai Canterbury Bulldogs, squadra di rugby a 13 di Sydney, ne è giunta una da 300mila sterline. Non c’è stato alcun seguito, ma questa circostanza ha consolidato l’alleanza di Lomu con Phil Kingsley, che per svolgere l’incarico di manager gli ha chiesto un dono particolare: la prima maglia degli All Blacks al suo ritorno in squadra. Prima però c’era da superare una selezione passata alla storia, quella di Taupo, in cui venne svolto un allenamento massacrante.

 

Al loro arrivo in Sudafrica, gli All Blacks hanno dovuto innanzitutto resistere alla passione dei tifosi locali, in particolare quelli di colore, che fino a pochi anni prima, quando era ancora in vigore l’apartheid, li consideravano idealmente la loro rappresentativa. Il Sudafrica partecipava per la prima volta a un mondiale, dopo l’esclusione a causa del regime segregazionista.

Prima della gara inaugurale, Laurie Mains ha preso da parte Jonah e gli ha spiegato, semplicemente, che il suo compito era di prendere la palla e correre. E Lomu così ha fatto; ringraziando gli uomini di mischia che hanno svolto il lavoro sporco mettendolo in condizione di andare in meta.

Al termine della prima partita, e prima vittoria, sull’Irlanda (43 a 19, con 2 mete di Lomu), Jonah è corso da Kingsley per regalargli la maglia, come aveva promesso. Sono seguite le vittorie contro il Galles (34 a 9) e il Giappone (145 a 19). Quindi, ai quarti, la vittoria sulla Scozia, con un’altra sua meta (48 a 30). In semifinale c’era l’Inghilterra. Lomu ha vissuto il prepartita in tensione. Anche quella volta, come già in precedenza, gli avversari hanno cercato di innervosirlo con dichiarazioni di sfida. A rendere ancora più rilevante il match era la volontà dei neozelandesi di pareggiare la sconfitta subita due anni prima. Ci sono riusciti con il punteggio di 45 a 29, con quattro mete di Jonah. E l’immagine di lui che sovrasta il più piccolo Mike Catt sarà una di quelle che persisteranno attraverso i prossimi decenni.

I Tuttineri sono così approdati alla finale, dove si sono trovati di fronte il Sudafrica. La vigilia è stata memorabile. Un giorno Jonah ha sentito qualcuno alle sue spalle che lo salutava: "Ciao Jonah". Voltandosi si era accorto che era Nelson Mandela. La felicità per quell’incontro è stata subito macchiata da una strana circostanza: dopo il pranzo, molti giocatori degli All Blacks hanno accusato una serie di malori. La squadra, seppure non nelle migliori condizioni, ha deciso comunque di giocare la finale. Purtroppo la forma fisica precaria si è dimostrata decisiva e hanno perso. Il morale era a terra ma altre sfide e altre novità erano alle porte.

 

Un mese dopo il mondiale Lomu ha giocato 2 test con la nazionale contro l’Australia, vincendoli entrambi e marcando una meta per partita.

 

Intanto, una nuova sigla, la World Rugby Corporation, voleva organizzare un campionato alternativo a quello tradizionale della New Zealand Rugby Union, con squadre che avrebbero girato in mondo. Prometteva molti soldi e questo ha attratto alcuni giocatori. Non Lomu però, che ha rifiutato su consiglio del suo manager. Kingley, vecchia volpe del circuito rugbistico, il quale aveva intuito che la nuova associazione, pur disponendo di un budget molto alto, non aveva predisposto l’organizzazione adeguata ad un campionato. D’altra parte le offerte di ingaggio per Lomu non mancavano: dall’Inghilterra, dal Leeds, ne era arrivata una da 500 mila sterline (i migliori giocatori britannici ne quandagnavano meno della metà). Per Kingley e Lomu la condizione irrinunciabile era la conferma negli All Blacks. Lo stesso Jonah ha dichiarato: “Quando in uno sport cominciano a girare parecchi soldi non è mai un bene;, ma una cosa non è mai cambiata nella storia del rugby neozelandese, soldi o non soldi, i giocatori vogliono indossare la maglia della nazionale”.  

Il rugby era diventato uno sport professionistico e gli All Blacks hanno iniziato quella prima stagione della nuova epoca con un tour in Italia e in Francia. Hanno giocato in Sicilia e a Bologna. Jonah è sceso in campo solo nel capoluogo emiliano, il 28 ottobre, e ha segnato due mete. Poi, in Francia si sono presi la rivincita sulla sconfitta dell’anno prima, con la potente ala che ha marcato ancora una meta. A quel punto, la squadra ha avuto una nuova consapevolezza di essere un gruppo forte e Jonah, dopo una conversazione con Mains a cui ha raccontato la sua storia, ha avuto la certezza di essere un All Black.

 

Nel marzo del 1996 Jonah ha sposato Tanya, conosciuta l’anno prima in Sudafrica. “Un mese da pazzi", come lui stesso lo ha descritto, in cui si è visto ritirare la patente, ha avuto un pesante diverbio con un fotografo e ha chiesto un paio di volte scusa pubblicamente per i suoi comportamenti. È nato inoltre il nuovo campionato, il Super 12, con squadre di Nuova Zelanda, Australia, Sudafrica. Accanto a lui però non c’era più Phil Kingsley, tornato in Galles dove aveva accettato di tornare ad allenare. Il matrimonio ha colto di sorpresa tutti. Il mancato invito ai rispettivi genitori è diventato argomento di dominio pubblico e Jonah si è accorto che ormai tutto quello che faceva, in campo e fuori, era materia per cronisti, non solo sportivi.

 

Ma quell’anno avrebbe purtroppo riservato sorprese peggiori. Senza che nulla trapelasse in pubblico, i medici avevano monitorato le sue condizioni durante tutto l’anno per trovare una spiegazione alla strana difficoltà di superare infezioni e raffreddori e alla ricorrente stanchezza. Il dottor John Maryhew, da quel momento sempre a suo fianco, ha scoperto la causa: un rene non funzionava bene.

 

Il 1997 è stato il primo anno di battaglia contro il male. Non poteva giocare ma ha ricevuto molti inviti come commentatore e conferenziere, nuovo ruolo per il quale si era avvalso dei suggerimenti del suo ex manager, oratore di lunga esperienza. Ad agosto le condizioni si sono stabilizzate e nel mese successivo Jonah ha potuto tornare in campo per disputare il tour in Galles, Inghilterra e Irlanda.

 

Il 1998 non è stato entusiasmante per gli All Blacks: dopo le due vittorie casalinghe contro l’Inghilterra hanno subito cinque sconfitte consecutive nei test match, tre con l’Australia (non accadeva dal 1920) e due con il Sudafrica. A rimettere in sesto la stagione è arrivata la vittoria in finale nei Giochi del Commonwealth contro le Isole Fiji, a Kuala Lumpur. Per Lomu si è trattato di un altro tassello di celebrità internazionale. Ha ricevuto inviti per presenziare a manifestazioni sportive e del mondo dello spettacolo, tra cui la finale di Miss Mondo, in cui ha fatto parte della giuria. La molteplicità di impegni extrasportivi è finita per avere ripercussioni sulla condizione atletica. Egli ha fatto fatica a ritrovare la sua vecchia forma, così quell’anno, e anche all’inizio del successivo, è stato spesso utilizzato dagli All Blacks solo a partire dalla panchina, ed è stato anche relegato nella squadra A. Questo almeno fino all’inizio della Coppa del Mondo.

 

Il 1999 è infatti l’anno del mondiale in Galles, con scodature anche negli stadi degli altri Paesi facenti parte del Regno Unito. Una delle partite clou di quella edizione è stata Inghilterra contro Nuova Zelanda. Twickenham era strapieno: 82000 persone avevano coperto ogni centimetro delle gradinate. Dopo gli inni e la haka si è cominciato a giocare. E così, sprecate occasioni con i calci di Wilkinson, gli inglesi si sono trovati a soffrire per la meta di Wilson e per le punizioni di Mehrtens, il mediano d’apertura che a inizio carriera ha giocato a Calvisano. Un ritrovato Jonah Lomu, intanto, stazionava sulla sinistra, mentre la regia All Black "chiamava" soprattutto a destra, il territorio di Tana Umaga. Il pericolo però era fondamentalmente lui: il “mostro”. Sul “Guardian”, una foto di Healey era accompagnata dalla scritta “quest’ uomo oggi deve fermare Lomu; qualche consiglio? Il guaio è che non ce ne sono”.  Al 20′ della ripresa Lomu ha divorato tre quarti di campo, schivato due placcaggi e deposto l’ovale oltre la linea. E anche se l’analisi alla moviola ha mostrato in seguito un impercettibile e irregolare passaggio in avanti, anche se dopo gli inglesi hanno pareggiato aiutandosi con una carambola su un palo per andare in meta, anche se l’allungo degli All Blacks era giunto quando parevano in affanno, quella meta rimarrà l’azione simbolo della partita e del mondiale. Alla fine i neri hanno battuto i bianchi 30 a 16.

Lomu ha segnato due mete anche contro Tonga (45 a 9), due contro l’Italia (101 a 3) ed una con la Scozia ai quarti (30 a 18). Altre due ne ha marcate anche contro la Francia nella semifinale, arrivando così alla quota record di 8 in 5 gare, ma quest’ultima si è risolta per gli All Blacks in una sconfitta (43 a 31) che li ha costretti a fare le valige e tornare in patria con le pive nel sacco. Questo risultato non certo all’altezza delle aspettative (hanno perso anche la finale di consolazione contro gli Springboks, 22 a 18) non ha comunque inciso sull’immagine di Jonah, che ha continuato a ricevere proposte di ingaggio da tutto il mondo, anche se alla fine è rimasto in Nuova Zelanda nei Wellington Hurricanes.

 

Sono seguite altre vittorie e sconfitte, sia nel campionato sia ai tornei internazionali, e altri palloni schiacciati in meta da Lomu. Tre contro la Scozia e uno con l’Australia nel 2000. Uno ciascuno contro Francia, Australia, Irlanda, Scozia e Argentina nel 2001. Uno contro l’Italia e due contro l’Inghilterra l’anno successivo. Fino al fatidico 23 novembre 2002, data della sua ultima apparizione con la maglia degli All blacks: una partita giocata a Cardiff contro il Galles e vinta dai neri 43 a 17.

 

In totale Jonah Lomu ha totalizzato, fra nazionale e club, 185 caps in cui ha segnato 122 mete. Per gli All Blacks le presenze nei test matches sono state 63, con 37 mete.

A livello di club ha disputato 59 partite nel Super 12: 22 per i Blues nel 1996 e nel 1998 (giocando anche nella squadra che ha vinto il titolo inaugurale nel 1996), 8 per i Chiefs (1999) e 29 per gli Hurricanes (tra il 1999 e il 2003). Per le contee Manukau, tra il 1994 e il 1999, ha giocato in 28 gare, mentre dal 2000 ha inanellato 21 caps per Wellington, compresa la vittoria nella finale dell’NPC First Division, quando ha segnato due mete.

 

Nel maggio del 2003 è arrivato quello che lui ha definito il suo "D-Day", il giorno in cui ha fatto la prima seduta di dialisi. Accanto a lui, la nuova compagna Fiona Taylor, sposata tre mesi dopo. La sua forza di volontà e l’affetto della moglie sono stati decisivi per il recupero e il ritorno alle gare.

Infatti, lo stesso anno Jonah ha fatto un coraggioso tentativo di rientrare in campo del rugby con i Wellington in NPC, giocando un’amichevole contro Taranaki, ma è stato subito chiaro che il ritorno ai vertici del rugby era per il momento escluso.

 

Sempre nel 2003 l’IRPA (International Rugby Players Association) ha consegnato a Jonah Lomu uno speciale premio per il suo contributo al rugby internazionale. Un evento raro, che in precedenza aveva visto premiati solo due giocatori: Jason Leonard e John Eales.

 

Nel 2004 il trapianto di rene, “offerto” da Grant Kereama, un dj di Wellington, e la voglia immediata di ricominciare ad allenarsi.

 

Nel giugno 2005 questo “rinoceronte inferocito” è entrato di nuovo in campo e ha segna anche una meta. In autunno è stato ingaggiato dalla squadra gallese dei Cardiff Blues.

 

Nel 2007 è stato introdotto nella International Rugby Hall of Fame ed è stato presente ai mondiali di Francia come commentatore.

 

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