Simone Favaro
Il suo allenatore nelle giovanili del Benetton, Gianni Salamon, ha sempre detto di lui: «È di Zerobranco, ma sembra nato a Rovigo: ha l’aggressività innata dei rugbisti di quella terra».
Il medico sociale della FemiCz Bruno Piva racconta: «Sabato prima del match contro Calvisano si sentiva fiacco, mi ha detto se gli davo qualcosa. Gli dato dei fermenti lattici. A fine partita, dopo 20 placcaggi e una meta, gli ho chiesto: per fortuna eri debole, se stavi bene cosa avresti combinato?».
La presidentessa rossoblu Susanna Vecchi alla cena della squadra, sotto le gradinate del "Battaglini", l’ha preso in giro: «Veramente di placcaggi ne hai fatti 19, il ventesimo l’hai sbagliato, come mai?».
Il centro di tutte queste attenzioni è Simone Favaro, 20 anni a novembre, flanker e grande promessa del rugby italiano. Ha debuttato nel Groupama Super 10 a Padova e sabato è stato protagonista del 46-16 (vittoria più larga di sempre) con cui la FemiCz ha spazzato via i campioni d’Italia del Cammi Calvisano nel 2. turno di campionato. Favaro e coetanei della classe ’88 (Andrea De Marchi, Andrea Bacchetti) nei due match sempre schierati nel XV sono il simbolo di questo Rovigo che cerca di rialzare la testa battendo la strada dei giovani italiani. Contro il Calvisano Simone è stato di una consistenza impressionante per l’età nel mettere pressione ai rivali e ha segnato la meta che ha suggellato il punteggio. «Niente di speciale – spiega con umiltà – Era una touche fuori dai loro 22 metri. Il seconda linea del Cammi ha sbagliato lo schiaffetto per il mediano, mi sono infilato, ho recuperato palla e sono corso dentro». Semplice, ma solo per chi ha l’istinto del cacciatore di palloni e di uomini come lui, sempre secondo quanto racconta Salamon che l’ha allenato per anni.
Un altro tecnico più famoso, Nick Mallett, in tal senso è rimasto folgorato la prima volta che l’ha visto. «Amichevole Italia under 20-Capitolina – racconta il ct azzurro – Ho visto uno dei ragazzi spiritato fare 25 placcaggi e non fermarsi mai. Chi è, ho chiesto al mio staff?». La risposta è stata Favaro, of course. Che lì ha iniziato a costruirsi la fama di uomo nato per placcare. «Placcare è il mio modo di parlare con l’avversario. È il mio punto di contatto con lui.
Come succede ai piloni nell’ingaggio in mischia, è la mai maniera di dirgli: ora ti faccio vedere io…» abbozza Favaro una prima spiegazione esistenziale. Poi passa all’analisi più tecnica: «Sono favorito dal mio ruolo di flanker nel lato aperto. Gli avversari attaccano gli spazi nel punto dove c’è la divisione fra i due blocchi, mischia e trequarti, e io sono lì. Fermarli è il mio lavoro. Se ci riesco non è solo merito mio, ma della giusta comunicazione con i due mediani e della copertura garantita dal numero 8. Il placcaggio è un meccanismo di squadra, non solo un’attitudine individuale. Io comunque l’ho sempre curato. È il mio punto di forza, ma ho ancora molto da migliorare».
Intanto lui stesso è già, pur così giovane e solo alla 2. presenza in Super 10, un punto di forza di Rovigo. Una squadra e una città che sembrano essergli cuciti addosso. «Per la prima volta giocavo al Battaglini e non mi sono mai sentito così gasato – esclama – Il pubblico è caldo dentro e fuori del campo, durante e dopo la partita. Credo sia la piazza ideale per il mio carattere, per divertirmi giocando e per crescere». Una piazza a cui la sua aggressività e mobilità ricordano il Flaviano Brizzante prima maniera, attuale allenatore della mischia. E dove Favaro ha già messo radici entrando in sintonia con il gruppo, altra parola d’ordine in casa Femi Cz.
«Nella mia famiglia – conclude – è tradizione farsi un regalo il primo stipendio che prendi. Io mi sono comprato un pappagallo, per l’appartamento dove vivo. L’ho chiamato Pablo, perchè è vivace e rompiballe come Calanchini…e gli somiglia pure un po’. Con Di Maura e i compagni gli stiamo insegnando a parlare». Vuoi vedere che la
prima parola che dirà sarà rugby? La forza di una squadra si vede anche da qui.
Ivan Malfatto
So’oialo, il pony nero che ha zittito gli scettici
Il più famoso è McCaw, capitano e icona. L’ultimo arrivato si chiama
Kaino. E per lui basta il nome. Tra i due c’è So’oialo, terminale del
pack e miglior numero otto del Tri-Nations da poco concluso. Insieme
formano la terza linea della Nuova Zelanda e la pasta madre del suo
gioco. Ma se McCaw è la stella e Kaino la novità che non ha fatto
troppo rimpiangere la partenza per la Francia di Collins, So’oialo è
un sopravissuto alle critiche feroci. L’uomo della rivincita. L’eroe
di un torneo che ha sancito la sua definitiva consacrazione in uno dei
posti più difficili e discussi al mondo: quello di terza linea centro
degli All Blacks. Oggi a 29 anni è più di ogni altro l’uomo ovunque
della squadra. E nella finale di Brisbane ha messo le mani in tutte le
azioni decisive.
Ma a dispetto del viso da bravaccio manzoniano, con l’occhio torvo e i capelli rasta al vento, neri come la notte, So’oialo all’inizio non veniva accreditato della classe e, soprattutto, dei mezzi fisici (1,90 per 100 chili) necessari per reggere il timone della mischia. Gravava su di lui, samoano trapiantato a Wellington, il passato nel rugby a 7, l’immagine del pony da circo capace di dare spettacolo solo in situazioni a bassa intensità. I tifosi furono scettici sul suo conto fin dagli esordi, nel 2002 contro il Galles. Il giorno più buio arrivò nel 2006 in Sudafrica, nell’ultimo test di un Tri Nations già vinto. Una di quelle partite in cui tutto va storto e persino la fetta di pane che afferri nel terzo tempo ti cade dalla parte della marmellata.
Nell’ordine: si fece intercettare il passaggio che lanciò in meta Habana, ostacolò involontariamente il compagno di squadra Hore impedendogli di segnare nel momento cruciale e nel finale commise il fallo che diede a Pretorius la punizione della vittoria. Finì 21-20 per gli Springboks, unica macchia di una stagione altrimenti perfetta. E siccome i neozelandesi per le loro rare sconfitte sono avvezzi alla ricerca del capro espiatorio, le critiche lo fecero a pezzi.
Rodney ha reagito in silenzio, lavorando duro. Ha messo su quattro chili di muscoli, ha forgiato un mentale di ferro. Alla fine ha fatto ciò di cui quasi nessuno lo riteneva capace. «E’ cresciuto come persona e come giocatore, aumentando il valore della squadra» gli ha riconosciuto Steve Hansen, il tecnico degli avanti.
Nel 2007 il brutto anatroccolo che un tempo starnazzava accanto ai cigni McCaw e Collins, ha prodotto una metamorfosi tale da zittire i detrattori: impatti di alto livello palla in mano, rapidità di gambe finalmente sfruttata al meglio, attacchi da entrambi i lati della linea del vantaggio.
Ha atteso con impazienza il ritorno nella terra che lo aveva precipitato in una situazione da incubo per mutare il proprio destino e farne il luogo della personale resurrezione. E a Durban lo scorso anno ha sbalordito con una prestazione memorabile. Era dalla partita di Mexted contro la Scozia nel 79 che i neozelandesi non vedevano un numero otto giocare in quel modo: una miscela esplosiva di fisicità, virtuosismo e senso tattico. Al 69′ So’oialo ha calciato a seguire e recuperato il pallone. Poi con una corsa intessuta di finte e giochi di appoggi degni di un’ala ha evitato un placcaggio dopo l’altro per servire infine uno squisito off-load a Collins. Dal raggruppamento successivo è arrivata la meta di McCaw: 26-21. Fine dei dibattito sulla sua maglia.
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