Dall’esordio a 16 anni a Rovigo, alla panchina azzurra.
Addio Doro
I funerali al ‘Battaglini’
È stato un rugbista fino alla fine. La notte prima di morire, stremato dal male e semi cosciente, era steso sul letto d’ospedale. La moglie voleva sollevargli la schiena per dargli un po’ di sollievo. Lui doveva aiutarsi aggrappandosi alla barra sopra la testa, ma le braccia erano senza energia. Allora l’ha spronato: «Dai Doro, touche a due mani». E ha catturato l’ultima touche. Sarà un rugbista per sempre. Domani alle 15,30 i funerali si terranno allo stadio "Battaglini" e non in chiesa. Perchè nella "città in mischia" il rugby è una fede. Li celebrerà il vescovo. Li seguiranno i devoti della religione ovale. Sul prato sarà allestita una camera ardente, vicino ai pali ad acca rivolti verso il cielo.
È morto e lascerà la vita terrena così Isidoro Quaglio, Doro per gli amici. Uno dei personaggi più conosciuti e amati del rugby italiano. Seconda linea in campo e prim’attore fuori. Memoria storica della palla ovale. Istrione senza pari. Amico di tutti. Affascinante affabulatore, dietro il baffo impertinente, il capello lungo scompigliato, la voce roca per le sigarette.
Quaglio aveva solo 65 anni. Un male incurabile prima al colon e poi al fegato, con cui combatteva dall’anno scorso, se l’è portato via ieri alle 10, all’ospedale di Rovigo. Era ricoverato da domenica. Al fianco aveva la moglie Gisella e la figlia Enrica, che l’hanno assistito amorevolmente. Al suo capezzale c’erano Angelo Visentin, Antonio Romeo, Federico Salvan e Arduino Cappellato, quattro fra i mille compagni di avventure ovali. Per strada correvano Ambrogio Bona e Salvatore Bonetti, ex compagni azzurri partiti da Roma e Brescia appena saputo che la situazione stava precipitando. Non hanno fatto in tempo ad andare per l’ultima volta in sostegno. Ma il messaggio lanciato dal loro viaggio è forte e straziante. Come quello lanciato dalla famiglia, acconsentendo all’espianto e alla donazione delle cornee. Doro continuerà a vedere le amate partite di rugby, con gli occhi di altri.
Isidoro Quaglio è uno di quei giocatori che ha fatto di questo sport una ragione di vita. Nato l’11 luglio 1942, passa l’infanzia a San Bortolo, il quartiere di Maci Battaglini e della prima grande generazione rossoblu. A 16 anni (stagione 1958/59) debutta in serie A. Seconda linea, vista l’altezza, il ruolo di sempre. Proprio l’altezza lo ha strappato a Rovigo e alla palla ovale. Si arruola infatti nei corazzieri e parte per Roma. Qui è affascinato dal canottaggio, altra disciplina regina di sacrificio e fatica. Entra nell’otto dei Corazzieri e conquista il titolo italiano a Castelgandolfo, nel 1963. Non dimentica però il primo amore. Una volta congedato gioca a Bologna, in Francia con il Bourgoin e infine torna nella sua città.
È il 1968. Il Rovigo non naviga in buone acque. Allenatore è Maci Battaglini. Stravede per lui e lo accoglie a braccia aperte. È uno degli artefici della rinascita, che porta allo storico scudetto del 1976. La sua foto con il cappello dei Bersaglieri in testa durante i festeggiamenti ne diventa il simbolo. Chiude la carriera nel 1978, con 167 presenze e 7 mete in serie A, più 14 caps in maglia azzurra. Dell’Italia diventa citì nel 1977 per due test (Polonia, Romania). Poi è allenatore, dirigente e animatore di tante iniziative, dagli Azzurri d’Italia al Gruppo Canoe Polesine, dallo sparring di boxe con Samuele Donatoni alla panchine di Cus Ferrara, Frassinelle, Villadose e Cadetti rossoblu.
In tribuna al "Battaglini" non manca mai. Diventa una sorta di padre spirituale del Rovigo. Il carattere esuberante lo porta a scherzare su tutto. Anche con il dottor Crepaldi che gli cura il cancro, il quale sta al gioco e domenica lo accoglie dicendo: «Sior Quaglio, è stato male perchè ieri il Rovigo ha perso il derby con il Petrarca?». A lui sono brillati gli occhi. Per l’ultima volta. Ciao e sogni Doro.
Ivan Malfatto
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