Questo mese non vedremo palle da rugby nel campo di Gereida, in Darfur. Dubito ce ne sia anche una sola in Somalia o nelle verdi colline che segnano il confine orientale della Repubblica Democratica del Congo.L’umanità che popola questi luoghi dimenticati sopravvive con poco cibo e non può permettersi di sprecare energie preziose correndo dietro a una palla. In Somalia si corre per proteggersi dalle pallottole. In Darfur lo sport è un lusso inimmaginabile per i milioni che hanno perso tutto nel conflitto e la vita è una lotta quotidiana per la sopravvivenza.
Per molti di noi il gioco è una normale attività. Per molti altri, minacciati da crisi umanitarie provocate dall’uomo o dalla natura, è qualcosa difficile persino da immaginare.
Nello stesso tempo, lo sport esprime valori condivisi di un futuro migliore anche là dove il futuro si tinge di nero. C’è il trionfo sulle avversità quando si strappa la vittoria in un’impresa che sembrava impossibile, il cuore batte all’impazzata per l’esultanza di un risultato che si credeva ormai irraggiungibile e, infine, c’è la gioia di far parte di un gruppo che transforma singole individualità in una formidabile unità capace di superare tutti gli ostacoli. Ovviamente, c’è anche l’avvilimento per una sonora sconfitta. Tutte queste emozioni sono presenti, in forma embrionale, anche in chi lotta per sopravvivere. Tutti noi, atleti ed atlete, dovremmo provare una naturale empatia verso quanti si dibattono tra inondazioni, terremoti, siccità e guerre. Sino a quando il “gioco non è finito” in luoghi come il Darfur, la Somalia o il Congo Orientale anche noi dobbiamo fare la nostra parte affinchè quanti vivono il dramma di queste crisi non siano dimenticati.
Quando ero capitano di una squadra di rugby, vincitrice della Coppa del mondo, ho viaggiato dall’Africa all’Asia per promuovere “Tackle Hunger”, la partnership umanitaria stretta con il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite e il Comitato Internazionale per il Rugby. “Tackle Hunger” fu lanciata 4 anni fa nel corso dela Coppa del Mondo di Rugby, in Australia, Quest’anno sarà una componente importante delle finali di Coppa del Mondo di Francia.
Incontrare i bambini africani dello Swaziland – paese distrutto dall’Aids e da ricorrenti siccità che costringono .400.000 persone, pari a un terzo della popolazione, a dipendere dell’assistenza alimentare – mi ha dato una diversa visione del mondo. Mi ha colpito molto la grande resistenza dei bambini sopravvissuti alle devastazioni dello tsunami asiatico, nella regione indonesiana di Banda Aceh, ai tempi della mia visita, poche settimane dopo l’onda distruttiva del 2005.
Nel marzo di quello stesso anno, il Comitato internazionale per il Rugby organizzò una partita a Twickenham tra giocatori internazionali dell’emisfero sud e nord del mondo. Sono orgoglioso che la squadra del sud abbia vinto anche se i veri vincitori sono stati i sopravvissuti dello tsunami che hanno potuto contare su oltre 3 milioni di US $ raccolti, quel giorno, per il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite.
La storia non smette di mostrarci quanto lo sport possa occupare le menti e, attraverso esso, facilitare la comprensione umana delle grandi emergenze umanitarie come la fame nel mondo. Pensate alla Coppa del Mondo di Rugby del Sudafrica, nel 1995, quando vinsero i Springboks e Nelson Mandela ricevette il trofeo Web Ellis indossando la maglia giallo-verde del capitano della squadra del Sudafrica, Francois Pienaar. Oppure, pensate alla velocista Cathy Freeman alle Olimpiadi d’Australia del 2000, quando trionfò nei 400 metri e riuscì, meglio di altri, a promouovere una maggiore comprensione tra aborigeni e popolazione bianca australiana. Pensate anche all’Iraq di oggi dove iracheni di tutte le fedi si sono uniti, accantonando ogni differenza, quando la squadra nazionale ha vinto le finali della recente Coppa d’Asia. E naturalmente c’è Paul Tergat, maratoneta, attuale detentore del record mondiale, che da bambino ha ricevuto gli aiuti alimentari del Programma Alimentare Mondiale ed che è ora Ambasciatore contro la Fame dell’agenzia ONU.
Nelle prossime settimane miliardi di persone seguiranno le partite di fronte ad un video. Sono parte di un pubblico che ama il rugby ma che, mi piace pensare, si interessa anche di altro. Tutti loro dovrebbero riflettere su quanto siano fortunati a poter godere di questo piacere. Per quanti non potranno partecipare – i bambini che fuggono dai combattimenti in Somalia, chi ha perso tutto in Darfur o in Congo – c’è tuttavia una speranza. La campagna Tackle Hunger ci ricorda il ruolo che noi, tifosi del rugby, possiamo giocare, affinchè i meno fortunati non siano dimenticati.
*Nick Farr-Jones è stato capitano della squadra che ha vinto la coppa del Mondo di Rugby ed è Ambasciatore per “Tuckle Hunger” del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite.
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