I Pumas in mischia con lo spirito del Che
Il Comandante ispira i rugbisti argentini: «Anche noi siamo impegnati a fare la rivoluzione»
Agustin Pichot nel match contro la Scozia (Afp) |
(Dal Corriere della Sera Online)
MILANO —C’è anche il Comandante nel miracolo dell’Argentina. C’è il suo spirito, la sua idea sul gioco, la sua particolarissima eredità. Ernesto Che Guevara de la Serna, argentino di Rosario, rivoluzionario, ucciso l’8 ottobre ’67 in Bolivia, ha giocato a rugby dai 14 ai 23 anni, ha fondato con il fratello Roberto la rivista Tackle, chiusa dopo 11 numeri perché, secondo le autorità, si occupava troppo di politica oltre che di mischie e mete, e ha amato profondamente il gioco degli inglesi. Soffriva d’asma, e ogni 20 minuti doveva uscire dal campo per un’inalazione. Un problema per molti, comprese le squadre che non lo vollero, non per lui che al padre, preoccupato per la sua salute, disse: «Amo il rugby, e a costo di scoppiare continuerò a giocarlo». Solo una volta scese a un compromesso, facendo felice il genitore, quando abbandonò il San Isidro di Buenos Aires, prestigioso club della massima divisione, perché a quel livello l’asma era difficile da gestire.
«Giocava ala, sinistra ovviamente — racconta Francisco Ventura Farrando, suo compagno di squadra a Cordoba — Aveva talento ed era intelligente, vedeva il gioco. Placcava anche molto bene, anzi, il placcaggio era il segno distintivo del suo gioco e per questo lo avevamo soprannominato Furibondo». Difesa e uso del cervello, dunque, più o meno la sintesi dell’Argentina di oggi, entrata tra le prime quattro della Coppa del Mondo contro ogni pronostico e decisa ad andare ancora avanti. Domenica a Parigi l’albiceleste affronterà il Sudafrica: non è favorita, ma non lo era neppure il 7 settembre contro la Francia.
C’è anche un altro legame, più stretto, tra il Comandante e questi Pumas che hanno fatto impazzire l’Argentina. Se Che Guevara ha fatto la rivoluzione, altrettanto stanno facendo Augustin Pichot e compagni. Da due anni battono più o meno chiunque e da due anni sono in guerra con la loro federazione e si autogestiscono (c’è un comitato di sei giocatori, tutti veterani: «Così se devono prendersela con qualcuno sanno con chi avranno a che fare»). Il punto più alto dello scontro un anno fa, a Londra: i Pumas avevano battuto per la prima volta l’Inghilterra a Twickenham e quando Alejandro Risler, il loro presidente, prese la parola al banchetto, si alzarono e abbandonarono la sala. «Abbiamo vinto per noi, non per loro» spiegò più tardi capitan Pichot. Alla loro federazione rinfacciano di essere rimasta all’epoca del dilettantismo, di non far nulla per migliorare il rugby argentino, un movimento che produce talenti in serie (sono 300 gli argentini che giocano in Europa, compresi 29 dei 30 nazionali del c.t. Marcelo Loffreda che a fine Coppa andrà ad allenare il Leicester) ma non ha sponsor, è disorganizzata e non aiuta i giovani giocatori.
E forse è proprio questa situazione di perenne conflitto che li aiuta e li spinge nell’altra rivoluzione, quella che portano avanti sul campo. Vincendo troppo spesso, arrivando alla semifinale mondiale hanno stravolto le gerarchie del grande rugby e ora pretendono anche loro un posto a tavola. Hanno chiesto di essere ammessi come settima squadra al Sei Nazioni e gli è stato risposto picche; hanno chiesto di poter diventare la quarta del Tri Nations e le federazioni del Sud hanno preso tempo. Insomma, vincono e rompono. Sono un attentato costante agli equilibri consolidati. «Certo che esiste una linea che ci unisce a Che Guevara — ha detto Pichot a Le Figaro —: lui ha amato il gioco come lo amiamo noi, lui ha combattuto per cambiare il mondo e noi nel nostro piccolo combattiamo per avere quei riconoscimenti che siamo convinti di meritare. Mi piace pensare che lui avrebbe apprezzato quello che stiamo facendo in Francia. Se ci siamo riusciti è anche merito suo perché, come ha insegnato il Comandante, noi siamo realisti, esigiamo l’impossibile».
Domenico Calcagno
11 ottobre 2007
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