<html><body style="word-wrap: break-word; -webkit-nbsp-mode: space; -webkit-line-break: after-white-space; ">A proposito di passione e soldi, incollo integrale un articolo pubblicato dalla Stampa. Un po' lunghino, con qualche imprecisione e varia retorica fuori luogo. Però interessante.<div><br class="webkit-block-placeholder"></div><div><div style="margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; font: normal normal normal 12px/normal Helvetica; "><b>Saracens: un magnate alla Abramovich per lo storico club londinese.</b></div><div style="margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; font: normal normal normal 12px/normal Helvetica; ">di IVO ROMANO</div><div style="margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; font: normal normal normal 12px/normal Helvetica; ">LONDRA - Già gli hanno affibbiato un soprannome. Per la stampa britannica, è il Roman Abramovich del rugby. E poco importa che sia sudafricano e viva in Svizzera, a differenza del magnate russo di stanza a Londra. Come poco importa che dai suoi ricchissimi conti bancari tirerà fuori una cifra di gran lunga inferiore a quella sborsata a suo tempo dal patron del Chelsea. Perché, si sa, tutto è relativo. Il calcio è una cosa, il rugby un’altra. Soprattutto se il termine di paragone è l'aspetto economico.</div><div style="margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; font: normal normal normal 12px/normal Helvetica; min-height: 14px; ">L'ultimo baluardo dello sport dilettantistico s'è arreso poco più di un decennio fa, nel 1996: prima ci si barcamenava tra allegra goliardia e poco significativi rimborsi spese, poi il dio denaro ha fatto il suo ingresso in mischia, senza peraltro alterare lo spirito del mondo ovale. Un momento storico, come lo sarà l'ingresso nel rugby britannico di Johann Rupert, ultramilionario sudafricano, presidente della Richemont, azienda di beni di lusso, che tra gli altri marchi controlla Cartier, Mont Blanc e Dunhill. Ha deciso di aprire il suo munifico portafogli e investire nel rugby, da buon appassionato, lui che arriva dal Paese degli Springboks, campioni del mondo in carica. Ne estrarrà 10 milioni di sterline (circa 15 milioni di euro), che andranno a riempire le casse dei London Saracens, club del nord di Londra, orgoglioso della sua storia (con tanto di stella e mezza luna nello stemma, oltre che di fez indossati con ostentata soddisfazione dai suoi tifosi), la cui tana è Vicarage Road, lo stadio del Watford, e il cui tallonatore risponde al nome di Fabio Ongaro, un terzo della granitica prima linea della nazionale azzurra.</div><div style="margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; font: normal normal normal 12px/normal Helvetica; min-height: 14px; ">Sembra un'inezia, al confronto delle cifre che girano in altri sport. E invece è un pezzo di storia del rugby: mai prima d'ora, fin dall'avvento del professionismo, un singolo imprenditore aveva investito una somma simile in un club. E solo di esborso di danaro si tratta, visto che la proprietà del club non cambia. Naturale, poi, che accada in Inghilterra. La Guinness Premiership è il campionato dagli standard di gioco e programmazione più elevati, anche più del Top 14 francese, che gli sta subito alle spalle. Sono le realtà nazionali più importanti al mondo, tanto da attirare frotte di impareggiabili interpreti del rugby, da ogni parte del mondo, compresi i Paesi dell'emisfero meridionale. Dall'Italia del rugby inglesi e francesi hanno attinto a piene mani. Dopo la Coppa del Mondo, poi, hanno fatto la spesa sul bancone delle altre grandi potenze della palla ovale: hanno risalito il pianeta verso nord giocatori del calibro di Percy Montgomery, Victor Matfield, Carl Hayman, Chris Jack, Aaron Mauger, Byron Kelleher, autentici baluardi di Springboks sudafricani e All Black neozelandesi. Questione di livello tecnico, certo. Ma anche di potere d'acquisto. Perché i quattrini che girano tra Inghilterra e Francia altri se li sognano.</div><div style="margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; font: normal normal normal 12px/normal Helvetica; min-height: 14px; ">In Inghilterra un giocatore di livello internazionale guadagna in media oltre 100mila euro, con punte superiori ai 200mila. La media degli ingaggi in Francia è anche superiore: il flanker azzurro Mauro Bergamasco, ad esempio, ne percepisce oltre 200mila. Il tutto, senza contare i bonus, aumentati a dismisura negli ultimi anni, soprattutto dopo il varo delle competizioni europee per club. Tali cifre, tra l'altro, sono destinate a lievitare, se è vero come è vero che la Premier Rugby inglese, una sorta di Lega, ha appena deciso di elevare il «salary cap» per i club di Guinness Premiership: da 2,2 a 3,4 milioni di sterline, un aumento superiore al 50 per cento.</div><div style="margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; font: normal normal normal 12px/normal Helvetica; min-height: 14px; ">Del resto, si tratta di numeri che entrano perfettamente nei budget dei club più ricchi. Quello più alto è roba dello Stade Francais (dove giocano i fratelli Bergamasco e Sergio Parisse) di Max Guazzini, presidente munifico e visionario, al limite della megalomania, che ha fatto il miracolo di portare il grande rugby all'ombra della Ville Lumiere, riuscendo più volte nell'impresa di riempire sia il vecchio Parco dei Principi che il nuovo Stade de France.</div><div style="margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; font: normal normal normal 12px/normal Helvetica; min-height: 14px; ">Restando oltralpe, ma transitando verso sud, la culla del rugby transalpino, il Tolosa può permettersi un budget pari a 21 milioni di euro, mentre uno dei club inglesi più in vista, il Leicester, arriva a 15 milioni di sterline. Cifre che hanno finito per svalutare gli altri campionati, anche quelli con grande tradizione. Le altre tre Home Union (Scozia, Galles e Irlanda) sono state costrette a un’autentica rivoluzione per presentarsi al meglio nella Heineken Cup, la Champions League inglese, ma il campionato che n'è scaturito, la Celtic League, ne esce con le ossa rotte da un ipotetico confronto. Il divario economico è enorme, incolmabile.</div><div style="margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; font: normal normal normal 12px/normal Helvetica; min-height: 14px; ">L'Italia, poi, è un nano tra i giganti, nonostante gli introiti federali (tra sponsor e diritti tv del sei Nazioni sfiorano i 20 milioni di euro). Certi budget nel nostro Super 10 sono improponibili: i numeri altrui vanno divisi per dieci (e oltre, in certi casi). Per non parlare degli stipendi: al massimo nel campionato italiano si arriva a 50mila euro. E il gap è destinato ad aumentare. Perché se Viadana, uno dei tre maggiori club italiani (con Treviso e Calvisano), è stato di recente sommerso da una valanga di 10 mete a Vicarage Road dai London Saracens in Heineken Cup, chissà cosa accadrà dopo che Johann Rupert avrà cominciato a operare le sue robuste iniezioni di danaro nel club del nord di Londra.</div><div style="margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; font: normal normal normal 12px/normal Helvetica; min-height: 14px; ">Un altro mondo. Che dall'iniziale approdo al professionismo a oggi ha fatto enormi passi in avanti. Mentre c'è chi si ostina a restare ancorato al passato. Nella fattispecie, l'Argentina, reduce dal terzo posto in Coppa del Mondo. La federazione ha appena bocciato l'idea del professionismo, con conseguente polemica da parte di Agustin Pichot, mediano di mischia dei Pumas. Già, perché lui è abituato agli standard dello Stade Francais, il club più glamour del pianeta ovale, che ora però rischia di essere superato dai London Saracens, il Chelsea del rugby.</div></div></body></html>