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<DIV><FONT face=Arial size=2> Rugbysti siete snob<BR>10 Settembre
2007</FONT></DIV>
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<DIV><FONT face=Arial size=2>All’improvviso il rugby in Prima Pagina. E non per
una partita, una vittoria, una sconfitta. Rugby socio/culturale. Ha cominciato
Giuseppe D’Avanzo di Repubblica di martedì. Sì, proprio D’Avanzo, l’elegante
implacabile narratore dei Segreti di Stato: un’apologia intitolata “Il sogno di
un’Italia diversa”. Sottotitolo “Perché questa disciplina è oggi l’anticalcio”.
Sommarietto: “Analisi di un gioco il cui stile rappresenta tutto quanto il Paese
non è riuscito a diventare”. Bene: un D’Avanzo che sconfina prepotentemente
nello sport dovrebbe consentire all’umile sottoscritto una passeggiata
nell’Altro Mondo e magari di sottolineare, da appassionato lettore delle
inchieste di D’Avanzo, un altro sommarietto: “Analisi di un mondo il cui stile
rappresenta tutto quanto il Paese non è riuscito a diventare”. L’avrei fatto,
vent’anni fa, quando m’incazzavo per poco; oggi, saggio per esperienza, ma forse
più per età, cerco di vedere il buono e l’utile dappertutto. Soprattutto,
rispetto le opinioni altrui. Ad esempio, scrive D’Avanzo:</FONT></DIV>
<DIV> </DIV>
<DIV><FONT face=Arial size=2>«Abbiamo la convinzione che l’Italia abbia bisogno
del rugby; che i principi del rugby consentano di guardare meglio lo stato
presente del costume degli italiani. Questo gioco può migliorare
l’Italia».</FONT></DIV>
<DIV> </DIV>
<DIV><FONT face=Arial size=2>Incasso, non ironizzo: ci avevo pensato anch’io, al
Rugby Esemplare, ma senza arrivare a capo di nulla perché la muscolosa lealtà di
quegli atleti, la limpida rudezza che produce rivali e mai nemici, e quel loro
ritrovarsi nel Terzo Tempo, questo sì da adottare dovunque, ma con spirito
franco non per vocazione all’inciucio, non hanno mai fatto breccia nella massa
dei cosiddetti sportivi; forse perché – come giustamente sottolinea D’A. – «è un
mistero inglorioso, per gli italiani, il rugby, pochi sanno esattamente di cosa
si tratta…ed è un peccato perché il rugby ha le stesse capacità mitopoietiche
del calcio e, come il calcio, permette di interpretare il mondo». Mi chiedo,
tuttavia, perché questa critica agli italiani che hanno liberamente scelto di
amare il calcio a decine di milioni, imitati dal mondo latino, da quello
anglosassone, di recente anche da quegli snob dei francesi che fino a quando
hanno potuto hanno celebrato sull’Equipe il rugby piuttosto che il calcio e poi
hanno ceduto, diventando addirittura Champions du Monde elevando la palla
rotonda al cielo (ricordo la vigilia del Mondial ‘98, le Figarò che lo
presentava con un fondo di Raymond Aron intitolato “Il calcio oppio dei popoli”
eppoi lo stesso giornale, un mesetto dopo, dedicargli tutta la prima pagina,
perché avevano vinto). La colpa non è degli italiani, la cui passione calcistica
scaturisce da una cultura non banale (leggersi la Storia sociale del calcio di
Papa e Panico, edizione Il Mulino), ma semmai del rugby medesimo, che non è
riuscito mai a sfondare desiderando il piacere snobistico della “casta
protetta”. Il rugby non ha mai vinto niente, il nostro calcio può vantare 4
titoli mondiali vinti e, in quanto a popolarità, è secondo solo al Brasile. Dico
spesso, certo esagerando: l’avessi avuto a mano io, il rugby, sai quanti giovani
l’avrebbero scoperto e amato. Nel Sessantuno, a Bologna, le prime esperienze di
giornalismo sportivo le feci con il rugby, spedito dal Carlino, la domenica
mattina, nel fango dell’antistadio, dove giocava la Viro di
Pederzini,propagandista e finanziatore del gioco. Il dopopartita, certe riunioni
chiassose a tutta birra, mi lasciarono imperturbabile: c’era, nei protagonisti,
una forse involontaria presunzione di superiorità,non solo muscolare, anche
ideologica. Finii per appassionarmi al calcio dei breriani italianuzzi
stortignaccoli, perché i miei connazionali erano in gran parte italianuzzi e
stortignaccoli. Negli anni successivi, ebbi sodale, l’ottimo Giuseppe Tognetti
che, se avesse incontrato l’intelligenza federale, sarebbe diventato il vero
divulgatore del rugby: era scrittore colto, uomo mite, armato di disinteressata
passione. Chiuso lì. Per anni il Rugby ha perso tempo e solo oggi sale alla
ribalta, di tanto in tanto, ma spesso raccontato - anche in tivù - come evento
folcloristico. L’allegria, la birra, gli irlandesi focosi coi bimbi appresso,
gli scozzesi smutandati, il Flaminio tutto bandiere e popolo festante: un’anima
esteriore, “dentro il rugby” ci arrivano in pochi. E per me è troppo tardi.
Peccato.Dopo l’elegante tirata di D’Avanzo, ecco di nuovo il folclore che
avanza: mercoledì, prima pagina del Giornale, Michele Brambilla racconta la
storia di Epi Taione, star del rugby di Tonga, che per ottenere un finanziamento
della sua nazionale in vista dei Mondiali di Francia ha scambiato il proprio
nome con quello di uno sponsor irlandese e adesso deve chiamarsi Paddy Power,
come la ditta. Brambilla si scandalizza, e va bene, ma io trovo proprio in
questo gesto tanto scriteriato come appassionato - e generoso, no? - l’Essenza
del Rugby. Meno complicato, meno snob. Epi Taione ha preso i soldi e via. Dopo
il Mondiale, ciao Paddy Power. Ecco dove aprirei la discussione: D’Avanzo o
Taione? Propongo di coinvolgere - se D’Avanzo ci sta, non si sa mai - Benito
Paolone, padrino (patrono?) del Rugby Catania.<BR></FONT></DIV></BODY></HTML>